Introduzione

di Angelo Gallani

Credo che la via più semplice e naturale per rapportarsi ed entrare nell'opera di Ziveri sia quella di far capo all'interrogativo primo che lo spettatore è tendenzialmente chiamato a porsi: quale sia la natura dell'opera. L'importanza che attribuisco a questa domanda è dovuta al valore sintetico della questione, in quanto risultante di percezioni problematiche diverse e composte in tempi diversi durante la fruizione dell'opera d'arte. Tenterò di mostrare nel corso della discussione come l'elemento temporale che scandisce la crescita di consapevolezza dello spettatore sia non solo importante ma elemento fondante dell'opera. Innanzitutto però è necessario affrontare la prima natura della domanda, che scaturisce spontaneamente stimolata dall'elemento più fisico dell'opera, dal suo primo contesto di vita, dalla tipologia del supporto dell'opera e della tecnica proposta. Non si tratta di una pura questione strumentale, di per sé troppo facilmente passibile di superficialità e gratuità se ridotta ad una semplice analisi delle capacità tecniche dell'artista. Gli elementi digitali utilizzati, che per primi si impongono, non sono unici né straordinari perché propri di una contemporaneità che ha portato l'elemento digitale e lo sviluppo della tecnologia relativa non solo ad una forte diffusione ma ad una pervasione passivante e abitudinaria della nostra quotidianità pari solo a quella degli oggetti che sono, o vogliono essere resi, essenziali e irrinunciabili allo svolgimento e all'appagamento delle necessità umane. Le particolarità del mezzo quindi, volendo scardinare e prendere possesso attivo di un valore neutro ed effettivo di partenza, non sono la facilità, la comodità o l'apparente empatia sensoriale che può strutturare, quanto il tipo di coscienza che deve necessariamente stimolare in quanto strumento aggiuntivo e non primigenio e, soprattutto, in quanto strumento tecnico, meccanico, digitale con implicazioni chiare solo nell'ottica di un uso umano cosciente che non deleghi valori propri e del proprio messaggio (termine al quale vogliamo ricondurre, senza rinchiuderveli, gli atti individuali nella loro accezione più larga) al mezzo di diffusione. La discriminante non è la coppia Uso - Astensione di uno strumento ma il livello di coscienza dell'uso che permette, secondariamente, di sfruttare a pieno l'oggetto e le "possibilità" che la nostra coniugazione pone, ma prima di tutto permette la scelta cosciente del mezzo, una scelta che può essere giocata solo sul piano della coerenza e del rispetto del messaggio in discussione e in via di realizzazione, rivolgendo la questione tecnica sotto l'osservazione dell'ontologia del messaggio. Questo il passo che concede all'uomo di usare negli effetti l'elemento tecnologico, oltrepassando quella tentazione di con-naturazione della tecnologia che ne fa il riferimento e l'essenziale della vita comune. La scelta quindi dello strumento digitale in un'opera d'arte rispetta quindi sicuramente l'intento di testimonianza della peculiarità della contemporaneità al quale un artista deve necessariamente guardare, ma soprattutto si richiama all'ordine nel tentativo di strumentalizzare realmente, nel fenomeno dell'opera che ha luogo fisicamente, lo strumento di produzione e quanto il contesto socioculturale e' stato in grado di caricarvi ed assecondare. Il pericolo della banalità attenderebbe nella realizzazione di un’opera il cui intento fosse la pura polemica e contrapposizione nei confronti di un mezzo, il digitale in questione, al quale non si può rispondere direttamente, proprio in quanto ente inanimato e irresponsabile e che troppo agevolmente sarebbe in grado di rivoltare nella "propria prospettiva" qualsiasi tentativo di contrapposizione di valori: qualsiasi valore contrapposto vi sarebbe immediatamente proiettato dentro come conseguenza necessaria e quindi dipendente del mezzo e qualsiasi sviluppo della percezione dello spettatore sarebbe legato non più alla precisione del messaggio, del predicato proposto idealmente, ma al sussistere di quel particolare mezzo di diffusione che si fa anche centro di attenzione assoluta, Significante in confronto al quale il Significato si fa semplice pretesto, quindi accessorio e inutile. L'opera di Ziveri chiama l'elemento digitale per farne non solo un supporto ma un supporto paradossale, un supporto che proprio nell'assolvere il proprio ruolo, combinandosi con quelli che Ziveri ritiene i paradigmi dell'arte e della comunicazione, mostra se stesso incapace, insufficiente, mostra ciò che non è in grado di realizzare e quindi ciò che limita nella realtà. Il passaggio è semplice ma non scontato. Non sarebbe stato sufficiente accostare la tecnica pittorica tradizionale e l'elemento digitale, in una qualsiasi combinazione e d'altra parte non qualsiasi referente d'immagine per l'opera sarebbe stato ugualmente corretto e in linea con il dispiegarsi dell'intera struttura della ricerca dell'artista, un'opera che nel crescere si è chiarita come luogo di completa ri-discussione del concetto di comunicazione umana e quindi di distinzione da quelli di informazione e interpretazione della realtà. In quest'ottica il percorso di Ziveri ha raggiunto un punto parziale ma determinante nell'istante in cui ha selezionato come riferimento più eloquente la realtà costruita DELLE immagini, la dimensione fittizia e artefatta della carta patinata, della parzialità e manipolazione di ciò che perde così il valore di intento comunicativo e si riduce ad un passaggio di in-formazioni diffuse in massa, omogeneamente e rivolte ad una non-coscienza sociale disposta ad essere plasmata dal sistema dei mass-media. Agire su questa tipologia di immagini e agirvi con gli strumenti propri dell'arte che ogni spettatore riconosce, attraverso il gesto e il colore: agire su quelle immagini per portarle dalla una finta realtà ad una realtà che si scompone per farsi imprecisata non nella linea del qualunquismo ma come potenzialità di un riconoscimento che spetta legittimamente solo il fruitore, equidistante tanto dalla pretesa simbologia di un astrattismo quanto dall’univocità di un indottrinamento per immagini fissate. Quindi colore, il gesto che torna visibile sulle e addosso, fino addentro le immagini, e luce, la luce che DALL'OLTRE o non NEL quadro compone la profondità e lo spazio finalmente di una realtà riconosciuta come possibile, non decisa ma decidibile individualmente, nei tempi e modalità della personalità di ogni fruitore, con l'attesa e la pazienza dell'esperienza artistica e della vita non dell’apprendimento nozionistico codificato e immediato. Tuttavia, pur riconoscendo la legittimità della reazione prima di tutto di un uomo che della scelta artistica, in un simile intervento ancora pittorico è necessario ravvisare un problema esattamente omogeneo a quello discusso: la stessa pittura, nella nostra contemporaneità non è percepita come valore artistico in quanto possibilità di rilettura, discussione ed esperienza, ma come status, come ri-affermazione di un bagaglio culturale che si è fatto percettivo e veicolo di indiscriminazione sia nella ricerca tecnica artistica che nei propositi interpretativi del fruitore, divenendo così la pittura solo un ennesimo codice "moralmente virtuoso" perché intellettualmente certificato dalla storia e tanto assorbibile acriticamente quanto strumentalizzabile dai diffusori. Riteniamo che la pittura si muova e realizzi con caratteristiche e scelte che la fanno non solo impropria nel nostro tempo ma elemento equivocabile e travisabile in maniera esplicita e controllata, contravvenendo ai più dei principi dell'arte nel farsi elemento strutturale del Sistema sociale e non quell’Altrove della riflessione della realtà su se stessa attraverso il singolo, non più elemento di dialogo per lo spettatore ma forma per le masse. Prendere le distanze da una simile dinamica non significa nel lavoro di Ziveri rifiutare di appropriarsi di ogni elemento discusso ma di porlo in quell’altrove che gli spetta, di ricondurlo ad un’origine che non sia più unica per i più ma unica per ognuno e che ugualmente mostri quanto distante sia il nostro mondo da quello, immanente nell’opera, dell’arte. La fotografia digitale nel descrivere, come ennesimo passaggio strutturale dell’opera, quanto già realizzato prima dalla carta patinata e su di questa dal nitido gesto dell’artista, si propone ovviamente la più diretta comunicazione dell’intenzione e dell’immagine artistica, un’alta definizione che vorrebbe accontentare il significato come la sua forma. Qui avviene lo scacco che Ziveri definisce Slogatura, Dislocazione del fenomeno artistico, che comprende il darsi dell’opera e il chiedere quindi il proiettarsi dello spettatore. La stampa dell’immagine del lavoro di pugno dell’artista non è realizzata più sopra la superficie, sulla membrana che idealmente si proporrebbe di porci a contatto con l’opera materialmente, col suo colore e con una possibile tattilita’ da scoprire e accessibile. Ziveri nega questa possibilità, la pone nel visibile ma non più in quel direttamente e immediatamente esperibile che l’abitudine cerca di appagare; l’immagine permane nell’opera, ma non più a contatto con la nostra realtà sensoriale bensì negata ad essa proprio da quella superficie di alta definizione dell’incomunicabilità e dell’irraggiungibilita’; non si discute il rintracciarsi della prima immagine utilizzata che si fa latente nell’immagine complessiva, ne’ la visibilità di un tempo in cui la mano dell’artista e non un'altra e’ intervenuta sulla grafia per portare quella latenza da un’affermazione impositiva ad un interrogativo accogliente, aperto in profondità da quella luce che dona all’immagine le ombre e le luci della personalità complessa dell’individuo. E’ in discussione che tutto ciò ci appartenga; è in discussione l’attendibilità delle attribuzioni che vogliono appropriarsi di una realtà banale attraverso la vista, attraverso un giudizio che si uniforma alla sicurezza della compresenza tra percezione dell’opera e dimensione dell’arte, alla fissità del valore che aspetta la conferma di un istante storico per non volersi più mettere in discussione. L’unica risposta a quell’interrogativo che chiede dove stia andando quell’Arte che si forma in un altrove non può essere che quello stesso interrogativo, che nel formularsi chiede a noi stessi di spostarci, di dislocarci, ci costringe a pensare che di fronte a quell’assenza c’è una distanza che siamo tenuti a colmare nel continuo interrogativo di noi stessi. Una particolarità è in grado di amplificare la valenza e la voce di una simile opera ed è quello stesso Tempo che mostra prima tutto i gradi del dispiegarsi dell’opera e poi mette lo spettatore in condizione di ripercorrere le constatazioni, le distanze e la rinuncia dell’immagine. Il tempo imporrà l’invecchiamento di un’opera che non dovrà assolutamente essere restaurata, concedendo alla materia la propria deperibilità, la trasparenza che i colori conquisteranno per una naturale degenerazione, per l’inevitabilità della mutazione. Questa mutazione acquisisce un’importanza assoluta perché è esattamente quel fattore di libertà che sbriglia sempre più e irreparabilmente l’opera dalla sclerotizzazione tanto dei valori assoluti che dei giudizi esclusivi sopra le teste degli spettatori: poter invecchiare, poter mutare seguendo il tempo, senza alcun criterio peggiorativo né invigorente ma con la partecipazione alla fisicità dell’opera, dei soli, delle umidità e dei freddi. L’esclusività arriva ad essere così riservata esclusivamente a chi in ogni istante vorrà appropriarsi di un’immagine diversa, nella migliore delle ipotesi nel ricordo di una forma primigenia ma ormai altra, memore dell’invecchiamento delle proprie carni, della strada colmata da un tempo che è esperienza e dell’assoluta necessità non di un ripudio, ma di una dignitosa rinuncia del passato che ci ha fatti e che nel negarsi chiede un futuro nuovo e originario.

Ziveri e la Pittura di Immagine. Ovvero la Crisi dell'Immagine

di Francesco Barocelli 

Potremmo forse qualificare pittura di immagine (paralogismo e tautologia, ad un primo apparire, in realtà parte del processo creativo di quest’ultima parte del percorso dell’artista nato a Parma, ma ora attivo anche se non prevalentemente fuori dalla sua città) questa nuova fase di studi che ritroviamo nell’opera di Giuliano Ziveri. Già gli conoscevamo esperienze che dal pittorico lo hanno portato al materico, dall’immaginifico alla struttura metallica dipinta, sino all\'installazione architettonica. Questo nuovo corso maturato sulla soglia di una lettura dei fenomeni che circuitano attorno all’uomo e alla sua psiche si colloca sul duplice versante disciplinare che lo vede ad oggi coinvolto. Arte e psicologia. E’ quasi una lettura dal crinale, dal quale è possibile sporgersi come da un davanzale per vedere a distanza anche le coltrici di nubi e poi attraverso il loro diaframma filtrare quel che rimane della luce o recuperare quel che rimane dell’incomposto colore. Pittura di immagine che in realtà intende essere manifestazione della crisi dell’immagine “… una ricerca – per dirla con Nello Ponente – che parte da lontano … e che ha il suo fondamento più concreto in quella rottura dei moduli tradizionali della rappresentazione dello spazio già messo in essere. …, una rottura che automaticamente portava alla trasformazione della concezione stessa di “rappresentazione”, che si poneva in maniera diversa il problema della resa delle immagini naturali…”, filtrate e modificate dalla coscienza. Mi pare che queste “apparenze cromatiche”, recente produzione di Ziveri, affidate ad un processo analitico transitato attraverso le moderne strumentazioni in “cdr”, individuino uno spazio per questa analisi delle fonti primigenie, sino ai “fantasmata”, che sono poi singoli suoni, singulti di umanità, bisbigli traforati d’aria, nei quali trapassa l’impalpabile essenza dello spirito. La questione poi è tecnicamente complessa, poiché l’opera intende reintrodurre l’argomento dell’attualità dell’arte, non importa se figurale o informale nell\'epoca di un ulteriore, estrema sfida, tecnologica. Allora ecco il breviario del caso, già scritto e meditato all’uso. E se ne tenesse conto alle soglie delle pretese assolutistiche delle globalizzazioni! Per Walter Benjamin, soprattutto per lui, la questione della riproducibilità dell\'opera d\'arte rappresentava il nuovo limite della sua fase estetica. Si entrava nella fase della riproduzione dell\'esemplare. Tramontava l\'unicità dell\'opera come veicolo di forme insostituibili, di idealità che uscivano dal dialettico coincidere di forma e di contenuti; nasceva da una parte un\'opera meno condizionata dai dogmi del canone estetico, ma anche più fragile nella sua facoltà di indurre ad un\'ispirazione mistica, non necessariamente di debole efficacia evocativa. Il mistero dell\'arte diveniva luogo di sperimentazioni continue diffuse e distribuite a costellazione sull\'intero raggio delle nuove dimensioni del pensiero, che sono quelle disegnate dalla coincidenza dell\'infinitamente piccolo e dell\'infinitamente grande e ancora della inversa proporzione dello spazio e del tempo nella generale lettura della realtà nella macro-realtà cosmica. Quel mistero è stato ampiamente passato allo scandaglio. Nella sperimentazione si è avvertita l\'unicità del segno creativo, facendo dell\' atto poetico il luogo della funzione intellettuale. V\'era un modo classico di intendere l\'arte, che non era solo canonico (perciò affidato ad una sistematizzazione per norme e per regole, spaziali, cromatiche, formali, geometriche, stereometriche, prospettiche, grafiche, etc.), era anche psicologico, estetico, cromatico e perciò illusionistico (unendo spazio e prospettiva a forma e atmosfera, perciò declinazione simpatetica dei colori e delle forme) etc .. L\'addio a quel modo non ha trovato miglior commento di quel passo ancora di Benjamin: "Ciò che vien meno è insomma quanto può essere riassunto con la nozione di "aura": ciò che vien meno nell\'epoca della riproducibilità tecnica è l"\'aura" dell\'opera d\'arte". E\' trascorsa almeno una generazione di artisti e di critici da quando si lanciava questo primo acuto segnale. Il sistema delle comunicazioni era agli albori; la radio non balbettava, ma era appena uscita dalla sua infanzia; la questione dell\'immagine si fermava sulla sorprendente possibilità di dare colore alle pellicole in bianco e nero; il che significava nell\'immagine fissa raggiungere l\'ultimo stadio più aggiornato di tecnica artigianale di riproduzione figurativa. Il cinema sfidava il bianco e nero con qualche belletto che ne abbassava il tono e la drammaticità; la televisione allora esisteva solo in America. Ed era nella sua aurora. Perché indugiamo a parlare di questo? E\' all\'interno di questo "set" di funzioni che gioca il proprio ruolo di battitore libero l\'artista. La questione del rapporto tra l\'immagine originaria (il concetto) e la tecnica di riproduzione (seriale) del medesimo s\'era aperta molti anni prima. La questione del movimento impressionista e post-impressionista ne è un rispecchiamento. Né ci sorprendono le parole di Paul Valéry allorché parlava della "Conquista dell\'ubiquità": "Né la materia né lo spazio né il tempo non sono più, da vent\'anni in qua, ciò che erano da sempre. C\'è da aspettarsi che novità di una simile portata trasformino tutta la tecnica artistica, e che così agiscano sulla stessa invenzione, fino magari a modificare meravigliosamente la nozione stessa di Arte". Quel "meravigliosamente" ci può dire molto sul pensiero di Valéry in merito al passato, all\'antico, alla storia, una prospettiva scevra di nostalgie (di qui anche il suo disamore per i musei). A fasi intrecciate e tra di loro alterne sono venute le risposte delle arti: pulsione e repulsione: astrattismi e neorealismi, sino alla convivenza, una sorta di coesistenza pacifica, dove il luogo celebrativo è quello della sperimentazione continua, che basta ad esorcizzare la tirannia antica del canone estetico. Ricorrendo ad un complesso procedere, che meglio descriveremo, si pone dinanzi al sistema delle arti e alla questione della loro funzione nella percezione e comunicazione visiva nei tempi della riproducibilità tecnica avanzata la più recente ricerca di Giuliano Ziveri. Lo studio della struttura del segno, prima, quello della comunicabilità dell\'essere attraverso la materia, sono state le funzioni "alchemiche" attraverso le quali è transitato un processo di invenzione affidato a più registri. Dai materiali tradizionali al metallo inciso e trattato matericamente con il colore; dalla restituzione di una sembianza all\'immagine attraverso la ripresa fotografica, alla sua rielaborazione mediante il filtro empatetico del sistema computerizzato. Affidare alla figura il ruolo della materia significa capovolgere i termini del canone sul quale si reggeva la struttura dell\'opera classica. Si sostituisce alla sostanza il ruolo del segno, all\'immagine la funzione della struttura. "Res extensa", il pensiero è il luogo dove si confrontano figura e materia. Ziveri ha scelto di trattare l\'immagine. Di essa mantiene l\'ombra, che ne è proiezione "noumenica": dalla proiezione teorica passa alla selezione tecnica. Ne ricava un " numen", qualcosa di evocativo. Da "fenomenica" essa diventa "noumenica", poi, per così dire, "numinosa". E\' la traccia del colore ottenuta nella lettura, passata a "cd", delle figure, selezionate e sottoposte al seguente trattamento quella che induce all\' opera finale. Questa ricompone in se stessa la questione della unicità e dell\'eccezionalità dell\' opera. E\' innanzitutto processo: ed il processo è fatto a gradi; in effetti si potrebbe parlare di una accessione iniziatica alla immagine: strappata alla frammentazione del tempo e poi restituita alla presunta fissità puntuativa del tempo nella sua forma ricomposta. Essa ristabilisce i termini nel luogo, opposto a quello d\'origine, poiché la figura esiste solo come ombra proiettiva ed ectoplasmatica di se stessa. Il colore è il filtro del leggibile retinico, il luogo è la superficie ottenuta mediante la proiezione dal disco computerizzato che agisce come modulo-interfaccia, lente delle deformazioni-rielaborazioni, ma anche alchemico trattamento delle immagini umane. L\'opera è eternamente ed infinitamente riproducibile; solo la volontà dell\'artista, e perciò dell\'artefice ideatore e costruttore, può interrompere questo processo. Si riaffaccia il possibile ristabilirsi di un nuovo equilibrio nella figura di una artista-demiurgo. Nell\'assorbirsi delle procedure delle nuove tecniche vi è la possibilità di riconiugare il rapporto tra artefice e nuova frontiera della comunicazione artistica. Essa non è lasciata al caso o alla edonistica casualità del mercato, o all\'avventura delle riproduzioni. Da eteronomo, il luogo artistico giunge a riguadagnare una propria autonomia. Le opere recenti di questo artista si classificano sulla banda concettuale; per questo hanno bisogno di un supporto magnetico, inciso con il sistema più attuale, quello mediante laser. Ma quella ne è la fase intermedia; poiché coincide con il momento critico dell\'intervento dell\'autore nella funzione di trattamento-obliterazione dell\'immagine. Va segnalato come venga mutuato dal sistema dell\'arte di tradizione l\'atto creativo puro, iscritto nel colore¬massa piuttosto che colore-materia. In definitiva il manto cromatico coprente riprende la tradizione anticlassica o anticanonica del "dripping", e della pittura atomizzata, spazialistica, che interpreta il nuovo ruolo comunicativo-relazionale dopo gli ottimismi cubisti, fauvisti, espressionisti. Ed è questo il "quid" di artigianale tradizione che Ziveri recupera come potrebbe fare da Fautrier (un autore che per la verità, a mio parere lo ispirava anche in passato, o da qualche altro (certo Tapies) (pensiamo agli artisti materici piuttosto che agli spazialisti puri, ovviamente). V\'è in effetti una sorta di ambiguità irrisolta nella orditura del colore, spruzzato, segnato, macchiato, colato e tra il colore e l\'immagine in filigrana che s\'allontana (né si può dire che se ne cerchi una lettura criptica); vi sono le declinazioni dell\'\'\'action painting" messe a disposizione perciò di un diafano allontanamento, nel quale i segni residui, nelle membra, nell\'ombra del corpo, nelle immagini oblique e sovrapposte di esseri animati, o nei residui mnestici di luoghi evocativi (architravi, interni, etc.) non rappresentano i "parerga", l\'\'\'aggiunta decorativa", ma nemmeno intendono interpretare la funzione di un sostrato di riferimento. Semplicemente scorrono, scorrono sullo stesso piano del mezzo magnetico, vengono trattate e fissate dallo stesso, appartengono alla medesima "banda mentale"; e se le loro campiture, in luce piuttosto che in ombra, si imparentano con accensioni epifaniche e magnetiche, restituiscono alla visione quell\'\'\'aura\'\' di possibilità interpretative dell\'opera che la rendono unica nella sua possibilità evocativa. In definitiva quei campi di chiare fluorescenze, ove si raccoglie il residuo mnestico della figura, diventano quasi tracce ectoplasmatiche (vagamente rinviano, per associazione, alla immaterialità delle masse nei bianchi caliginosi e albuminosi di Turnero alle accensioni degli eliofotogrammi di Man Ray), qualcosa che sta tra l\'essere, inteso come individuo, e la psiche. Si ristabilisce perciò la funzione dell\'autore, colui che fa crescere l\'opera, ne incrementa il valore aggiunto di significati positivi. V\'è un tratto ottimistico in questo: si va ancora alla ricerca di un atto demiurgico che ridisegni il luogo dove all\'agire dell\'uomo, perciò alla sua mano, alla fantasia proiettiva e alla creatività del medesimo, perciò alla sua mente, vi possa essere possibilità di cittadinanza, prima della abdicazione definitiva dinnanzi al potere riproducibile e infinito della tecnica anonima della macchina. Del resto non è solo l\'arte visiva ad essere messa in discussione. Di fatto si lavora per ricostruire una nuova identità al fare artistico, passando attraverso il proprio fare artistico. Questa tendenza al procedere per piccoli passi forse è l\'unica consentita dopo la lacerazione e l\'incertezza. Per chiudere, mi pare che l\'esperienza nuova di Ziveri abbia i connotati di una sfida, ancora compiuta sulle ali dell\'ottimismo; egli crede ancora nella funzione dell\'arte, anzi delle arti. Per questo non è disposto ad accettarne il silenzio o un\' estinzione lenta, magari per tacita e accetta eutanasia. L’orditura creativa di queste opere basta a confermarlo.

Dislocation

di Angelo Gallani

Quanto viene definito “dislocazione” è ciò che prende il posto dell’immagine nell’opera d’arte e che effettivamente ne costituisce il reale movente, sviluppandosi su due piani per mettere in discussione prima, apparentemente, il soggetto di un’immagine storica in quanto propria del bagaglio sensitivo e culturale dell'essere umano, diffusa e costantemente proposta e presente, successivamente l’Arte, il rapporto che il suo passato e la propria non-forma attuale ha con la percezione presente. La sola deformazione di un’immagine non costituisce di per sé un’occasione di ricerca né di discussione, amplia semplicemente i corollari dell’apparenza di pubblicità tematiche, contribuisce alla vacuità della significanza. Devono essere messi in discussione non solo l’immagine o il suo mezzo di propagazione ma già il loro rapporto e risalire fino all’origine che noi ora paghiamo incoscientemente. Nelle opere di Ziveri sono state accolte immagini che la stratificazione di un'informazione endemica ed invasiva ha costruito giustificandone una percezione assolutizzante, con una conseguente indiscutibilità e la caduta in oblio del ruolo non solo informativo ma anche di risveglio di un senso critico di apprendimento che ponga la responsabilità del rapporto dialettico con un'immagine diffusa e a noi non aliena, come di un'altra realtà, ma consustanziale della nostra plasticità sociale: ora ci si vuole riappropriare della possibilità di riconoscere all'immagine quella porzione del suo spessore che ne definisce il senso dell'eredità già nell'essere costantemente e perennemente alla vita di un presente diverso, un presente appartenendo al quale deve potersi offrire non nella distanza ma nell'apertura della discussione e del dubbio della ricerca, non del qualunquismo ne' della legge, cioè del dogma. La superficialità propria dei posteri del nostro tempo, cioè di coloro che hanno bisogno di avvertire e rapportarsi ad una realtà da cui essere immuni e lontani, tanto spazialmente che temporalmente, ha celato da un lato il ruolo e la pregnanza sociale generatrice dell’opera d’arte e dall'altro la compresenza dell'uomo nel prendere atto dell'esistere di un atto e di un essere trasmesso e non informato, ciò di cui e' invece stata dogmatizzata la forma: se prima la necessità dell'immagine sortiva dal significato del referente della stessa e ciò ne era la legittima strutturazione, propria di quell’immagine e quindi di quel significato, ora è la tipologia d’uso dello strumento rappresentativo, forte della standardizzazione delle apparenze, che costruisce ad hoc il significato della presunta comunicazione e sposta il conoscere dal piano della trasmissibilità a quello dell'informante.